di Don Paolo Pietroluongo

da Fraternità e Missione, 12-2017

Ritornare come bambini è il segreto per entrare nel Regno dei cieli. Ci penso spesso in queste settimane in cui accolgo i nuovi bambini di II elementare, al loro primo anno di catechismo. Sono spaventati dal “nuovo” che sta per accadere, e ovviamente non mancano i momenti di crisi: ci sono quelli che non lasciano la gamba della mamma, altri che iniziano a piangere appena capiscono che saranno lasciati lì, altri ancora, spaesati, ti guardano come se non avessero mai visto un prete (forse non l’hanno veramente mai visto!). E poi ci sono i gradassi, quelli che non hanno paura di niente. La timidezza l’hanno lasciata in sala parto. Ti assaltano appena mettono piede nel campetto dell’oratorio: sfrecciano accanto a chi è ancora lì a piangere con la mamma. Ti chiedono una palla, poi un’altra, fanno fatica a giocare insieme ma diventano amici in due secondi: pronti, via! Io gioco in attacco, tu fai il difensore: io sono Belotti e tu Bonucci, anzi no, Chiellini!

Cerco di riportare la calma. I palloni vengono ritirati, le lacrime asciugate, i volti di chi piangeva si rasserenano, quelli di chi giocava si intristiscono (non potevamo giocare ancora?). Bastano due note con la chitarra, la Nave Nera salpa, tutti cantano: il peggio è passato. La musica ha questa capacità di pacificare l’animo. Mentre mi diverto come un matto tra il timoniere e l’uomo in mare, scorgo da lontano due bambini che si rotolano a terra, disperati. Non mi preoccupo più di tanto, le mamme sono vicine a loro e cercano di convincerli a partecipare. Intanto arriva il momento atteso: si assegnano le classi. Divido i bambini con le catechiste: ho lavorato tutta la mattina come un forsennato per fare le classi, studiando mille combinazioni per non rattristare nessuno. Tutti hanno il compagno del cuore nella propria classe. Mentre i ragazzi entrano, mi si avvicinano le mamme dei due bambini che si dimenavano tra le lacrime: “Non vogliono fare catechismo”, mi dicono piene di vergogna, come se la colpa fosse loro. “Ci penso io, tranquille, voi andate pure!” rispondo, sicuro delle mie capacità pastorali. Mi siedo nel campetto, con le gambe incrociate, davanti ai bambini: “Qual è il problema? Non volete fare catechismo?”. Uno di loro mi fissa glaciale e dice: “Sto male solo a sentire questa parola: catechismo. Odio il catechismo!”. L’altro bambino ha ancora i lacrimoni, annuisce ad ogni frase del compagno. Resto colpito dalla fermezza di queste parole di un bambino di 7 anni. Prendo coraggio e inizio a parlare: “Qui da noi il catechismo è fantastico, non è come a scuola; cantiamo, c’è il teatro, ci sono i giochi, si possono fare tante domande. E poi, scusate, la cosa più bella è imparare a conoscere Dio. La vita insieme a Lui è la più bella avventura che ci possa essere! Non vi interessa scoprire cosa Dio può donarvi? Cosa vi costa provare?”.

Mai visti due volti così diversi: quello che piangeva riprende colore, un accenno di sorriso gli spunta sulle labbra. Con voce tremante, dice all’amico glaciale: “Sì, dai, proviamo, magari ci divertiamo”. Iceman, invece, 7 anni, rimane impassibile, mi guarda negli occhi e dice, senza emozione: “Che Dio esista o no, non me ne frega assolutamente niente. La mia vita va bene così com’è. Odio il catechismo”. Non basta essere bambini per ritornare bambini: abbiamo bisogno di riscoprire, a 7 anni come a 30, che la vita è una festa preparata per ognuno di noi, che tutto è un dono: una palla, un amico, una risata, una passeggiata, un viaggio in tram. Solo questo ci rilancia nella vita di tutti i giorni.