QUAL’E’ LA STRADA PER LA FELICITA’?

Quaderni di Casa Santa Giulia

Don Paolo Pietroluongo

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La mappa del tesoro, il primo indizio

In cosa consiste la vera felicità? L’abbiamo detto negli incontri precedenti, prima di Natale. Noi siamo davvero beati e felici quando viviamo nella verità di noi stessi, cioè quando noi amiamo e siamo amati come figli. Se qualcuno ci desse la mappa per trovare noi stessi, chi siamo veramente – figli amati da un Padre Celeste – e ci dicesse anche come raggiungere questa verità, ci metteremmo subito alla ricerca. Il problema è che noi questa mappa l’abbiamo persa, non sappiamo più che siamo figli e non vogliamo neanche esserlo (si chiama peccato originale). Ciò che ci fa soffrire profondamente è il non sapere che siamo amati di un amore infinito. Abbiamo perso la mappa e abbiamo iniziato a pensare che non ne avevamo bisogno. Ci muoviamo nella vita di tutti i giorni senza mappa, facciamo cose, cerchiamo di costruirci un futuro migliore con il lavoro e lo studio, vagando di qua e di là. Ma dove stiamo andando? Cosa cerchiamo veramente? Viviamo nella vita di tutti i giorni da orfani, come chi non ha padre o madre da cui sentirsi amato. E tutto è un susseguirsi di fatti che sembrano non connettersi gli uni agli altri; tutto sembra uguale e piatto.

Gli indizi e gli aiuti

Di tanto in tanto accade qualcosa nelle nostre giornate che ci ferisce l’anima, e accade soprattutto quando facciamo un po’ di silenzio che ce ne fa rendere conto. Qualcosa che ci richiama, che ci ridona memoria, che ci fa ricordare che siamo in cammino, qualcosa che ci fa ricordare che stiamo camminando (ecco perché vi invito sempre a guardare la vostra esperienza). Perché, vedete, una volta questa mappa ce l’hanno data: e quando accade qualcosa di bello, di buono, di giusto, di vero, di profondo, quando ci sentiamo particolarmente amati noi diciamo: è per questo che sono nato, è verso questo che sto camminando! Questo tema della memoria, del ricordarsi, nei testi che avete scritto e che ho letto, è molto presente: ci dimentichiamo di questa bellezza di essere figli amati, ce ne ricordiamo poco. Ma è per questo che noi siamo assieme, è per questo che ci troviamo, come una compagnia di avventurieri che vuole “ricordare”. Non solo. Ma Gesù stesso è venuto a dirci delle parole perché potessimo camminare verso la verità di noi stessi, quella di Figli amati. Come dicevamo le altre volte: sentiamo come la necessità di attaccarci a Gesù perché Egli, che è il Figlio prediletto, ci aiuti a vivere da figli amati.

La prima meta – esempi

Il primo aiuto che Gesù ci offre per ricordarci che siamo figli amati, voluti è questo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Questa è la prima beatitudine. Come vedete c’è una promessa: il regno dei cieli. E c’è una strada: essere povero in spirito. I poveri in spirito posseggono il regno dei cieli. Che cos’è questo regno dei cieli? Possiamo dare 3 risposte:

a) Il regno dei cieli è quello che qualcuno di voi definiva la profondità di noi stessi e della realtà che abbiamo attorno a noi. Il regno dei Cieli, dunque, non è solo la vita eterna, ciò che ci aspetta nell’aldilà. È quello che Gesù ha chiamato il centuplo: la capacità di gustare fino in fondo la nostra vita. Uno di voi ha scritto tempo fa: Qual è il mio metro per misurare la felicità? La soddisfazione studentesca? Le attività per la mia crescita umana? I rapporti di amicizia o le relazioni amorose? No. Il mio metro per misurare la felicità è quanto io riesco ad andare nel profondo della realtà; è il non fermarsi al superficiale. Se faccio così, allora non sono blando, non sono insapore, ma assaporo il gusto di Dio.

b) Ma non solo: il regno dei cieli è Cristo stesso, è l’incontro con Lui nella nostra vita. Mi ha molto colpito quello che raccontava Cristina sulla confessione l’altra volta. Vi riporto qui alcune cose che due di voi hanno scritto. Il primo dice: Mi sono confessata dopo quasi 2 anni che non lo facevo. Dopo, ho preso l’eucarestia: era quasi un anno che non mi alzavo durante la messa per prendere l’ostia. Qualcosa è cambiato, non so cosa. So però che Dio ti fa attaccare la vita al cuore. Le cose di Dio, tutte quante, si attaccano al cuore e non lo lasciano più. Senza di Lui nulla rimane. Poi ho fatto silenzio una sera. Sono andata sul lungo Po e mi sono seduta su una panchina. Non so quanto tempo io sia rimasta lì, ma penso di aver capito questa piccola cosa del silenzio: il silenzio amplifica, espande, il tutto, ristretto, in un pugno di cuore. La mia vita è cambiata? No. Spesso mi fa ancora schifo. Ma mi sembra che ora questo schifo Dio lo tenga stretto nelle sue mani.
Un altro di voi ha scritto: In questo periodo penso proprio di aver riconosciuto la presenza di Gesù nella mia vita. Ed è con questa esperienza che voglio iniziare ad aprire più spesso il libro delle mie esperienze, perché veramente Dio è presente nelle nostre vite, se solo potessimo riconoscerlo! E riconoscerlo penso che sia l’esperienza migliore per poter amare e stimare la nostra vita. Quello che mi ha insegnato questo periodo, dopo questa esperienza, è che per cercare di amare e stimare la mia vita la cosa più importante che devo fare è fare silenzio/andare in fondo alla realtà proprio in Sua presenza.

c) E infine, come tanti di voi hanno detto e scritto: l’inizio del regno dei Cieli è l’esperienza della Chiesa, che voi chiamate gruppo, ma che io chiamo compagnia verso il nostro Destino. Anche qui vi riporto due testimonianze. Uno di voi ha scritto: L’esperienza più significativa di questo periodo è stata il mio arrivo in questo gruppo di universitari. Conoscere persone nuove mi sta facendo molto bene. Durante queste vacanze sono riuscita ad approfondire di più dei rapporti che prima erano molto più superficiali e mi sono sentita voluta bene da Angela, Madda, Fra. Insomma, ho sentito che la mia presenza e la mia persona sono volute.

Ancora un’altra persona aveva scritto tempo fa: In questo momento sto cercando proprio qualcuno con cui “condividere” Dio e sono venuta qui proprio per questo. Non mi basta più andare a messa la domenica, riempire le mie giornate stando all’Università, andando in palestra, uscire con gli amici. Mi servono delle persone con cui poter condividere Dio.

Questo è il regno dei Cieli, l’inizio del regno giù qui su questa terra: la profondità della vita, la bellezza del rapporto con il Signore, l’inizio di rapporti veri.

Il primo aiuto

Per vivere tutto questo, Gesù ci dà un consiglio: essere poveri in spirito. E qui viene il difficile. Perché fino ad ora queste cose che ho raccontato, capitano. Cioè, uno le ha vissute perché Dio ti ha concesso di viverle (una particolare amicizia, un momento in cui hai deciso di confessarti, qualche avvenimento che ti ha particolarmente impressionato). Ecco, qui Gesù invece ti dice: scegli di essere povero in spirito. Come una virtù che va coltivata. Qui c’è tutta la nostra libertà, ferita, sbagliata a volte, ma capace di cose grandi.

Ma cosa vuol dire essere poveri in spirito, affinché queste esperienze descritte sopra possano essere abituali? Cosa devo fare? Come devo vivere? Lo vedremo dalla prossima volta.

Il primo indizio: l’umiltà

La nostra gioia sta nel riconoscerci figli, amati e voluti. Abbiamo detto che questo Gesù lo chiama Regno dei cieli, che possiamo riassumere in tre aspetti: 1) gustare la realtà come un dono che esce dalle mani del Padre; 2) vivere un rapporto intimo e profondo con il Signore, nella confessione e nel silenzio; 3) vivere la bellezza di rapporti di amore dentro una comunità. Questo è il regno dei cieli che iniziamo a vivere qui su questa terra.

Come strada per vivere questo, Gesù ci chiede di essere poveri in spirito. Si tratta di una virtù. Virtù vuol dire qualcosa su cui possiamo esercitarci. Scegliamo, quindi, di essere poveri in spirito, di non gonfiarci, di non pensare già come deve andare la vita.

Per capire meglio questo concetto difficile, meditiamo un episodio del Vangelo (Mt. 8, 22-33)

Gesù ha appena compiuto dei miracoli, sta già percorrendo le strade della Palestina per parlare del Padre Suo e del Regno dei Cieli. I discepoli che sono con lui iniziano a vivere questo Regno: tutto è bello, tutto è fantastico. A loro sembra anche di avere tanto successo, perché ci sono tantissime persone che li seguono. Iniziano a sentirsi importanti. Loro sono i prescelti da Gesù, dodici in tutto, che hanno il compito di accompagnare il Maestro nella sua missione. Un giorno, appena dopo la moltiplicazione, si fermano a Cesarea. Lì parlano, discutono. Gesù chiede loro cosa pensi la gente di Lui. Poi rivolge la stessa domanda direttamente anche a loro.

«La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. (Mc. 8, 27-32)

Qui c’è un primo punto. Pietro ha appena dato la risposta corretta. Si è reso conto, per grazia di Dio, chi è quell’uomo che lui aveva davanti: il Cristo Figlio di Dio. L’ha riconosciuto. E, secondo me, si stava anche un po’ inorgogliendo, pensando di essere migliore degli altri. Poi Gesù riprende a parlare e presenta ai discepoli ciò che sarebbe successo: la sofferenza, il rifiuto dei capi, la crocifissione, la morte e la risurrezione. Ma Pietro ha già smesso di ascoltarlo. Appena ha sentito della sofferenza si è distratto. “No, non è possibile, questo non ti accadrà mai Signore”. (Mt. 16, 22) Questo è il primo errore di Pietro: il narcisismo. Pensiamo di esserne esenti? Il narcisista guarda solo se stesso. Noi non diciamo di essere narcisisti, ma poi ci comportiamo così, tutte le volte che ci fissiamo sui nostri pensieri. Giochiamo con i nostri pensieri, con la nostra immaginazione, crediamo che il mondo si riduca a quello che pensiamo noi, e ci ripieghiamo su noi stessi. Questo vuol dire essere dei palloni gonfiati. Invece di abbracciare la realtà che abbiamo davanti, ci costruiamo un castello dentro di noi; ci auto-convinciamo di come dovrebbe essere la nostra vita, la nostra realtà, di cosa sarebbe giusto per noi, per la nostra strada, per la nostra felicità. Di conseguenza poi ci lamentiamo. A volte ci capita anche di rimproverare Dio perché ci ha messo in quella famiglia, in quella città, con quegli amici, che ci ha dato quel corpo, quel carattere. Questo è Pietro che vuole dire a Gesù come deve salvare il mondo; questi siamo noi, quando pensiamo di saperne più di Dio. Domandiamoci allora: il nostro mondo interiore, i pensieri e le immaginazioni, prendono in noi il sopravvento? Su cosa ci fissiamo di più? Cosa mi aiuta ad uscire dai miei pensieri e ad abbracciare la realtà e a “leggerla meglio”?

Poi, Gesù che è un grande, corregge Pietro, anche visivamente. Immaginiamoci la scena: Pietro prende in disparte Gesù e lo rimprovera.

Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». (Mt. 16, 23)

Gesù mette letteralmente Pietro dietro di Lui e lo invita a seguirlo. Si volta, dà le spalle a Pietro e, mentre Pietro è alle sue spalle, guardando gli altri discepoli, dice: va dietro a me. Ovvero: non i tuoi pensieri o i tuoi progetti, ma tu sei chiamato a seguire me. Mettiti qui e seguimi. Questo vuol dire, in pratica, abbracciare il posto che Dio ha scelto per noi, con fiducia. Abbracciare, ad esempio, il fatto che ora siamo chiamati a fare una determinata cosa, a vivere una determinata circostanza; a lavorare in un’azienda specifica. Dobbiamo accettare anche gli imprevisti (ad es. se giocando a calcio ci siamo rotti il crociato); dobbiamo accettare che facciamo quella fatica particolare e non dobbiamo ribellarci, ma abbracciarla. Dio ha pensato questo per noi o comunque ci chiede di portarla. A volte Dio ci rimette al nostro posto: stai lì, non più avanti. E ce lo fa capire attraverso delle umiliazioni che permette che ci accadano, umiliazioni che poi sono delle correzioni di Dio. E noi, invece di ribellarci, se le accogliamo, vedremo nascere dentro di noi una pace – perché ci rimettiamo in cammino dietro di Lui.

Domandiamoci allora: quali sono le ultime correzioni che Dio ha permesso che accadessero e attraverso le quali mi ha rimesso al mio posto?

Le croci

Abbiamo detto che il regno dei Cieli consiste anche nel gustare la realtà, nel rapporto con il Signore Gesù e nel vivere dei rapporti veri di amicizia. Abbiamo inoltre detto come arrivarci: attraverso la povertà di spirito. Ovvero, vivere quell’abbandono fiducioso a Dio che ci mette al nostro posto (anche attraverso le correzioni che Dio permette nella nostra vita), che ci aiuta ad accettare noi stessi e la realtà che abbiamo davanti – non un’altra, ma proprio quella che dobbiamo vivere tutti i giorni.

Per fare un esempio, riporto quanto mi ha scritto un ragazzo: L’altro giorno mio papà mi ha corretto duramente per la questione dell’università, dicendomi che mi stavo impegnando poco. Mi ha detto: “Che futuro vuoi dare alla tua fidanzata?”. Questo mi ha fatto riflettere perché non l’avevo mai considerato da questo punto di vista. Quella mattina papà ha parlato molto anche del futuro che voglio donare a me stesso. Queste due cose mi hanno cambiato totalmente la prospettiva sull’università. Queste correzioni di mio padre mi hanno aiutato a volermi mettere in gioco, non posso pensare di sapere sempre tutto e di tutti.

Ora facciamo un passo in più. Perché è vero che Gesù corregge Pietro, ma è anche vero che il suo richiamo è per tutti, per la folla e per i discepoli. Gesù fa sempre così: quando deve correggere uno, poi usa di quella correzione per arrivare a tutti.

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti, quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita? (Mt. 16, 24-27)

È come se dicesse a tutti: voi pensate, per orgoglio, di essere più grandi di me? Di sapere meglio di me cosa è giusto per voi? Vi sbagliate. Fidatevi di me. Rinnegate voi stessi.

Rinnegare sé stessi è la cosa più difficile, perché vuol dire uscire dai propri pensieri, dal ripiegamento su sé stessi che tante volte viviamo. È la cosa più difficile del mondo. Eppure, se lo facciamo con l’aiuto di Gesù, Egli ci promette la vita, quella vera.

Penso alla mia strada personale: avrei fatto tutto nella vita, ma non avrei mai pensato di fare il prete (fino a quando non ho capito che Dio mi chiamava a questo). In generale, in questi anni, ci sono stati tanti imprevisti, che all’inizio mi hanno fatto arrabbiare, che non capivo, che mi sembravano contrari alla mia strada, o meglio, a quella che io pensavo fosse la mia strada! Invece era Dio che voleva condurmi su una strada nuova che io non avevo minimamente immaginato. Penso a quando ho dovuto lasciare Napoli per venire a Torino; al Covid che mi ha fatto perdere tanti rapporti. Penso che, dopo aver accettato la fatica dell’imprevisto, del cambiamento, questo mi ha donato molto di più di quello che mi immaginavo. Una pienezza di vita che mai mi sarei immaginato. Ma questo non vale solo nei grandi momenti della vita, o in situazioni di crisi. Vale anche nella normalità di tutti i giorni: sempre siamo chiamati ad uscire da nostri pensieri, da ciò che pensiamo di aver già capito, dal ripiegamento su noi stessi, per entrare nella giornata, nella realtà, con le mani vuote, aperte, disponibili ad accogliere ciò che Egli vuole donarci. Se ci fidiamo, se seguiamo Dio e la realtà che Lui ci mette davanti, invece dei nostri pensieri, ci viene donata la vita vera.

Tutto ciò ha una condizione: la croce. Gesù ci poteva salvare schioccando le dita ma invece ha voluto salvarci con la sua croce e la sua morte – e il destino dei discepoli non può essere sconnesso dal suo. Anche noi dobbiamo portare la croce. Non possiamo giungere alla vita vera senza la fatica. La fatica è una condizione, non è il fine. Dopo la croce, infatti, c’è la resurrezione, sempre.

Dunque, anche noi, come ci dice Gesù, dobbiamo prendere la nostra croce e seguirlo sulla strada che Lui ha pensato per noi. Quali sono le croci che vedo più comunemente?

1) Prima croce: essere sé stessi e abbracciare le proprie ferite. La persona più difficile da sopportare siamo noi stessi. A volte non ci sopportiamo, non ci vogliamo bene, non abbiamo cura di noi. Anzi, a volte ci puniamo in maniera eccessiva, dicendoci che siamo fatti male, magari a causa di ferite o traumi che la vita ci ha riservato…
Come possiamo volerci bene? Magari accettandoci così come siamo. È difficile, certo, però possiamo farlo, con l’aiuto di amici veri, che sanno anche ridere di noi, delle cose che non vanno, ma soprattutto con l’aiuto di Dio. Se ci guardiamo con gli occhi di Dio, grazie alla preghiera e al silenzio, scopriamo che siamo un dono prezioso, che magari non siamo perfetti, ma siamo comunque voluti, amati. Se accettiamo le ferite che abbiamo magari le possiamo “usare” per incontrare qualcuno che ha il nostro stesso problema, oppure affidarci maggiormente a Dio, per guardare con più carità gli altri e non crederci i migliori del mondo.

2) Seconda croce: abbracciare la strada che Dio ha tracciato per noi, la fatica del lavoro. Può sembrare banale, ma non è così. Tutte le mattine, ognuno di noi, si alza e ha un compito. Eppure, a volte ci può essere un po’ di resistenza a tutto questo perché non vogliamo fare fatica. Anche questa è una croce. È inutile che ci ribelliamo, siamo chiamati ad accettarla. Se l’accettiamo, come condizione che Dio ha scelto per noi adesso, e la offriamo al Signore, sono convinto che questo ci farà percepire la presenza del Signore, che è sempre accanto a noi tutte le volte che facciamo fatica.

3) Terza croce: i rapporti feriti, le amicizie che non sbocciano. Questa è la croce più difficile, perché non dipende solo da noi. Si tratta di una fatica grande, quella di accettare che certe relazioni non sono come vorremmo o non sono diventate come ci aspettavamo. Noi pensavamo che fiorissero, e invece no. È faticoso, perché a volte non possiamo farci niente, perché l’altro non è quello che pensiamo noi. A volte dobbiamo portare questa croce di rapporti feriti. Magari ci proviamo a sistemare le cose, proviamo a capire, anche a chiedere scusa, però non cambia niente. Forse dobbiamo solo accettare che deve andare così. È una croce grande, brutta: però se l’accettiamo, con l’aiuto di Dio, può capitare di iniziare a vivere rapporti più veri, più profondi.

Gesù dà a tutti un pezzo della sua croce. Perché? Sappiamo che la croce non è molto attraente. Gesù, però, non vuole eliminarci il dolore o la fatica, ma fare in modo che essi siano redenti, abbracciati, per stare di più con Lui. C’è una componente nella nostra vita che non si può eliminare: si chiama sofferenza, fatica. Quando accettiamo la croce che Dio ci ha dato, allora ci sentiamo più vicino a Lui, perché domandiamo di seguirlo, per farci aiutare. Questa si chiama povertà di spirito.