TU SEI FELICE?
Quaderni di Casa Santa Giulia
don Paolo Pietroluongo, don Nicolò Ceccolini
L’unità della vita
Abbiamo visto nella prima parte dell’anno la vicenda di Gedeone. Siamo partiti da lì per il semplice fatto che nasce in voi, ma ultimamente anche in me, la domanda profonda su quale sia il nostro posto nel mondo. Cosa sono chiamato a fare? Qual è la scelta giusta da fare? Che posto ha la paura di sbagliare?
Abbiamo detto che Dio prende continuamente l’iniziativa nei nostri confronti, tutti i giorni. Ed è in questa iniziativa di Dio che noi possiamo riconoscere i segni che Egli ci manda, alcuni evidenti, altri meno. Non solo, è importante questa iniziativa perché ci ricorda che cosa è il cristianesimo: è innanzitutto il rapporto con Cristo vissuto nella quotidianità. Guardate, per me questo punto è importante, è troppo importante, e io non posso tacerlo. Così, tu inizi a chiedere un segno per capire la tua strada, inizi a far delle domande a Lui perché vuoi capire, e poi ti trovi a poco a poco a seguirlo tutti i giorni, provi a vedere dentro le trame della tua vita quell’accento particolare del divino che ti svela la profondità della realtà. È troppo importante capire questo, ragazzi, perché questa è la nostra fede: la fede nell’avvenimento di Dio che si comunica attraverso Cristo il quale vuole entrare in rapporto con noi.
Tante volte, invece, noi riduciamo il rapporto con Dio. E lo trattiamo come un particolare di cui ogni tanto ci ricordiamo. A cosa lo riduciamo?
Lo riduciamo, ad esempio, ad un idolo. Chiedo delle cose a Lui in attesa che Egli me le conceda. Tu hai un bisogno (l’esame della patente, l’esame dell’università, una fatica sul lavoro) e ti metti lì a chiedere che Egli risolva tutto. Dio è la macchinetta delle merendine: scegli quello che ti piace, metti il gettone (cioè dici la tua preghierina) e poi tiri la leva sperando che esca quello che tu hai scelto. Oppure è il genio della lampada: esprimi un desiderio, sperando che Lui capisca, e attendi una rivoluzione nella tua vita. Diciamo che è un po’ riduttivo, un Dio così. Dio ridotto ad idolo a cui bruciare un po’ di grani di incenso. Chiedere delle cose a Dio non è sbagliato, ma non può essere neanche il contenuto ultimo del nostro rapporto con Lui.
Oppure lo riduciamo a sentimento. Oggi sento Dio dentro di me e quindi Dio esiste e mi vuole bene. Domani non lo sento più e quindi Dio è lontano da me. Dio resta un sentimento, un’idea su cui ragioniamo. A volte sarà un’idea esaltante che ci spingerà a fare grandi cose; altre volte sarà un’idea lontana dalla nostra vita. Questo tema del sentimento sembra banale ma non lo è, perché oggi diamo tantissima importanza ai sentimenti. E quindi tutto gira intorno a questo. Che Dio sia capace di riscaldare il cuore questo è verissimo, ma Dio non è solo questo. Come dice san Giovanni, Dio è più grande del nostro cuore.
Infine, riduciamo il rapporto con Dio ad una serie di norme morali da seguire. Per tanti di voi, seguire Dio vuol dire venire a Messa la domenica o fare qualche preghierina prima di addormentarsi. Per altri vuol dire rispettare i dieci comandamenti. Questo, purtroppo, è colpa anche nostra, di noi preti, perché abbiamo ridotto il cristianesimo a Non commettere atti impuri. Alcuni sono preoccupati esclusivamente di capire dove iniziano e finiscono il bene e il male: fin qui si può fare, poi no. Stiamo dunque attenti a non commetterne! Ma questa non è la buona novella, ragazzi.
Allora, domandiamoci: chi è Dio per me? Un idolo, un sentimento, una regola da seguire? Oppure è qualcuno che vuole entrare in rapporto con me? È un avvenimento presente che si rinnova tutti i giorni, tutti gli istanti?
E invece Cristo ha una pretesa grande di voi: quello di essere il centro affettivo, psicologico, materiale, di tutta la vostra vita, come l’ideale a cui ordinare tutto, tutto! Proprio perché Egli non è solo un sentimento, non è un idolo, non è una regola, ma è una persona viva, il quale non vuole solo i tuoi sentimenti, le tue preghiere, la tua morale: Cristo vuole te. È una pretesa grande, lo so, forse anche vertiginosa, ma meno di questo sarebbe solo l’ennesimo input che ricevereste per essere dei bravi ragazzi.
Guardate che questa questione è fondamentale. Sapete perché? Non solo perché altrimenti non saremo mai persone attrattive, belle; ma soprattutto perché altrimenti la nostra vita sarà sempre divisa. Da una parte la vita normale che tutti dobbiamo affrontare: l’università, i lavori da fare, il basket, il calcio, le donne, gli interessi, i sabati sera da passare insieme più o meno lucidi. E poi dall’altra la nostra fede della domenica: che piccolezza, che bruttezza oserei dire! E allora viviamo divisi, e la nostra vita è divisa. All’università ci vergogniamo se qualcuno parla male della Chiesa e della fede, e non osiamo dire la nostra. In discoteca, se vediamo qualcuno che fa lo stupido con una ragazza e la guarda come se fosse un animale in calore, non diciamo niente. Fuori magari facciamo vedere che siamo anche noi a caccia della preda, ma dentro magari ci dispiace, perché sappiamo che non si possono vivere così i rapporti, che non siamo delle bestie. Se qualcuno bestemmia durante una partita di calcio o di basket non riusciamo a dirgli niente, anche se dentro ci nasce una punta di dolore. E poi magari studiamo, lavoriamo, ci spacchiamo la schiena per ottenere dei risultati accettabili, ma poi viviamo come il mondo, senza Dio, preoccupati solo di riuscire, di ottenere ottimi risultati, non guardiamo in faccia il compagno che abbiamo davanti…E tutto questo sapete perché? Perché Dio resta un’idea, un sentimento della domenica, e non uno che entra in rapporto con me tutti i giorni. Pensiamoci un attimo: possiamo dire che la nostra vita è unita? Oppure è fatta a scompartimenti stagni? C’è un filo rosso che lega tutto?
È difficile, lo so. Perché questa pretesa di Cristo è grande, e magari tu pensi che dovresti cambiare troppo vita. Ma ancor prima di chiederti di cambiare vita, Cristo si vuole sedere accanto a te, e parlarti della bellezza di rapporti puri; della bellezza di avere un Padre nel Cielo; della bellezza di essere suoi discepoli; della bellezza di amare. Per convincere i suoi ad essere discepoli una volta Gesù ha detto loro:
Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.
Questo centuplo non è solo in quantità, ma è in qualità: seguendo Cristo ogni giorno, tu avrai cento volte tanto in tutto. Nel rapporto con la fidanzata, con il fidanzato, con i compagni di università. Non perché sarai cento volte più felice, ma perché scoprirai il senso di ciò che fai, perché lo scoprirai presente dentro ciò che fai. Il fine della vita del cristiano è la beatitudine! E tu, puoi dire di essere beato e felice?
Appunti per essere felici
Un dubbio: la felicità esiste?
Dopo l’ultimo incontro sono tornato a casa pensieroso. Anche io ho dovuto riflettere su questa domanda: Tu, sei felice? Mi sono domandato se lo fossi veramente. Poi ho iniziato a pensare a cosa fosse veramente la felicità. Mi arriva, infine, questo messaggio:
Secondo me la domanda su che cos’è la felicità a questo punto è centrale, perché se non ci “mettiamo d’accordo” diventa quasi impossibile ascoltarsi e capirsi (per quanto si può). Perché per quello che ho visto oggi [all’incontro] sembra una cosa iper soggettiva. C’è chi dice ” io sono felice perché non mi manca nulla, ho tante possibilità, un tetto sulla testa” e chi invece “io non sono felice perché non so cosa fare della mia vita”. Davvero questi due modi di pensare sono inconciliabili? È giusto che sia una cosa così soggettiva? C’è invece effettivamente qualcosa che si chiama felicità e che ricerchiamo tutti? Perché a me sembra di sì (di solito), ma forse invece tutti hanno una concezione diversa, solo che questa diversità questa volta mi sembra creare quasi dei muri.
Questo messaggio, che riprende l’intervento di una di voi, la quale diceva di non essere felice seppur non le mancasse nulla, dice due posizioni. La prima è che la felicità è legata a cose che si hanno (della serie: “non lamentarti, hai già il necessario…” posizione certamente saggia, perché invita a godere ciò che uno ha, “accontentati di ciò che hai”, cioè sii contento della realtà che hai). La seconda posizione, invece, afferma che la felicità è legata a qualcos’altro. Come dice il testo del messaggio che ho riportato sopra: “non so che farmene delle mia vita” (in questo caso è legata ad una domanda di senso: qual è il mio posto? Qual è la mia utilità?).
Soggettivo o oggettivo? Meglio l’esperienza
A questo punto dobbiamo domandarci: la felicità è qualcosa di soggettivo o di oggettivo? Perché non possiamo fuggire da questa domanda. Se la felicità è qualcosa di soggettivo, allora ognuno di può crearsi il suo ideale di felicità e perseguirlo. Diventa dunque difficile un dialogo tra di noi. Non solo. La conseguenza pratica di questa posizione sgancia la felicità da qualsiasi ideale di bene, di verità, di giustizia. Per assurdo: uno potrebbe essere felice ad uccidere le persone, un altro a drogarsi, eccetera. E quindi, sempre provando a continuare il ragionamento, dovremmo poter dire che non esiste neanche la verità, la giustizia, il bene o il male oggettivo. E ancora: alla fine diremmo che tutto è relativo. Il problema è che, in pratica, nessuno si comporta così, nessuno. Nessuno di noi è un relativista fino in fondo. Nella vita quotidiana, nel nostro vivere giorno per giorno, ognuno di noi cerca ciò che è buono, giusto, vero. Ognuno di noi cerca la felicità, e questo è già qualcosa di oggettivo, perché l’uomo si muove per questo, si alza al mattino per questo, anche se non lo sa.
Se bisogna “osservarci” in pratica, e non in astratto, domandiamoci allora: quando sono felice? Quando posso dire che sono felice nel vero, nel giusto, nel buono? La risposta è: quando vivo nell’amore. Quando amo e sono amato allora sono felice. Questa è la legge che c’è nell’uomo. Ogni realtà infatti ha una legge. La legge della penna è scrivere; la legge della sedia è usarla per sedersi. Questo è un dato di fatto oggettivo. Se qualcuno di noi usasse la penna per mangiare gli spaghetti o usasse la sedia come ambulanza in caso di emergenza (i relativisti potrebbero fare questo discorso) noi diremmo che è matto, che usa della realtà in modo irregolare. La penna si usa per scrivere, la sedia per sedersi. E qual è invece la legge che è iscritta nel cuore di ogni uomo, di ogni uomo della storia e del tempo? È la legge dell’amore. Il nostro cuore è fatto per questo. Certo, poi possono esserci delle “pazzie”: uno può usare male di questa legge, può amare in modo sbagliato, può commettere degli errori. Ma ciò non toglie che questa sia la verità, che però può essere applicata male.
Dunque, diciamo che la felicità è legata all’amore. Se amiamo e ci lasciamo amare, in modo buono, vero, giusto, siamo felici, sperimentiamo cioè un certo compimento dei nostri desideri. Per cui possiamo dire che la nostra vita non dipende da ciò che abbiamo, inteso i beni materiali, ma dalle relazioni. Infatti, il nostro essere è di per se stesso relazione. Essere vuol dire “relazione”. Ma non ci perdiamo troppo in ragionamenti filosofici.
Essere figli nel Figlio
Ora, facciamo un passo in più e domandiamoci: qual è la nostra verità più profonda? Se abbiamo detto che ciò che ci rende felici è amare ed essere amati in modo vero, giusto e buono, qual è allora la nostra verità più profonda? Cosa unisce tutti gli uomini di tutta la storia? I fatto che siamo figli. Ognuno di noi è figlio. Magari non tutti saranno padri o madri, ma tutti siamo figli, cioè dipendiamo. Non in senso economico, di sostentamento della vita, ma nel fatto che la nostra vita non dipende da noi, qualcuno ce l’ha donata e ce la sta donando ora. No, non vale dire: “Eh sì, io potrei togliermela adesso la vita”. Non vale, perché questo è togliersi la vita, non darsela. Nessuno di noi sta decidendo ora, in questo istante, di far battere il proprio cuore. La verità più profonda di noi stessi è che siamo figli perché qualcuno ci ha donato la vita e continuamente ce la dona, cioè dipendiamo da qualcuno. La nostra vita dipende da qualcuno. Pensateci un attimo: nessuno di noi nasce slegato da un contesto, da una tradizione, da una storia particolare, da una lingua, da una cultura: tutti noi siamo legati a qualcosa, nel bene e nel male.
Quando noi ci scopriamo figli amati e accettiamo di esserlo, cioè accettiamo di dipendere, questo è l’inizio della felicità. Siamo felici, dunque, quando amiamo e ci lasciamo amare da figli. E qui interviene la nostra fede, perché Dio stesso, che è bontà, giustizia, amore, libertà, è diventato uno di noi. Cristo Gesù è la bontà in persona, è la verità in persona, è la giustizia in persona, è il Figlio per eccellenza. Quindi noi possiamo imparare ad essere figli, anche se non abbiamo i genitori, anche se abbiamo un rapporto non bello con loro. In Cristo, avvicinandoci a Lui, legando la nostra vita alla sua, impari ad essere figlio ed impari che la dipendenza dal Padre è bella, è buona, è giusta. Non solo, ma impari ad imparare ad amare da figlio. Cosa vuol dire? Vuol dire che tu, da figlio, impari a ricevere tutto dal padre celeste, come proprio capitava a Gesù, che si meravigliava dei gigli del campo e degli uccelli del cielo, che si meravigliava per ogni persona che incontrava, si stupiva, perché vedeva tutto come un dono bellissimo che stava uscendo dalle mani del Padre Suo. E accoglieva tutto con gioia (badate che il contrario si chiama peccato, cioè quando tu vuoi prendere, strappare, impossessarti delle cose e delle persone). Così anche noi, possiamo imparare da Lui a guardare tutto così, come un dono che il Padre fa a noi figli: questo è il centuplo di cui parlava Gesù, questo è il centuplo, la profondità di cui anche uno di voi parlava l’altra volta, cioè vedere in profondità, assaporare. E se anche avessi poco, come beni materiali, se anche non fossi “ricco”, ma fossi povero, potrei comunque vivere con letizia, perché riconoscerei quel “poco” come ciò che Dio offre a me, per me.
Se dunque noi leghiamo la nostra vita alla sua, saremo felici. Infatti nel Vangelo Gesù lega sempre il compimento della propria persona alla sequela. Se tu segui, compi la tua vita perché nel Figlio ci scopriamo figli. Il vero problema è ricordarsi di questo, cioè avere memoria, anzi, fare memoria che siamo figli. È questo il senso della preghiera, è questo il senso del nostro ritrovarsi, di avere un posto così come la nostra amicizia: ricordarci che siamo figli.
Anche dentro le fatiche
Allora vedete, che anche se uno sta attraversando momenti di fatica, di difficoltà, di tristezza, eccetera, alla fine se riconosce che tutto questo viene, in maniera misteriosa, dal Padre Celeste, allora è lieto anche dentro le fatiche della vita. È vero, le sofferenze della vita ci fanno dire con certezza che il compimento assoluto dei nostri desideri, e quindi la felicità assoluta, saranno possibili solo in Paradiso, non su questa terra. Nella preghiera del Salve Regina diciamo infatti che siamo in “una valle di lacrime”. Eppure, possiamo essere lieti anche dentro le fatiche e le sofferenze. Questa è una battaglia nascosta: da una parte c’è il nostro desiderio di essere felici; dall’altra ci sono le contraddizioni della vita, fatta anche di dolore, di sbagli, di peccati, di malattie, di limiti, di morte. È una battaglia, a volte, che ci fa soffrire. Vedremo nei prossimi mesi come possono stare insieme queste due esperienze, eppure possiamo guardare a Gesù. Egli ha dovuto attraversare anche la sofferenza e il dolore, le ha vissute come occasioni di rapporto col Padre, accogliendole da Figlio, per un disegno più grande e misterioso. E dentro queste prove e contraddizioni è stato lieto, si è abbandonato a Lui.
Il segno più bello di questo è ciò che dice Gesù nelle Beatitudini. In queste parole di Gesù si capisce che si può essere beati, cioè felici, anche dentro le fatiche. Perché le beatitudini portano dentro una promessa di compimento. Leggiamole insieme, poi ne parleremo nel nuovo anno.
Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”
Incontro con don Nicolò Ceccolini
Si può essere felici anche dentro a delle fatiche.
[appunti non rivisti dall’autore]
Faccio parte della fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, sono prete da 11 anni, 12 anni a giugno, ma ho cominciato con la caritativa al carcere già da seminarista nel 2011.
Volevo fare innanzitutto una premessa: la fraternità a cui apparteniamo io, Paolo e gli altri sacerdoti di Santa Giulia è una fraternità missionaria. Da quando sono diventato prete però non mi sono mosso da Roma, ho fatto solo dentro e fuori dal Grande Raccordo Anulare. Uno entra in una fraternità missionaria, pensa di partire per il mondo, invece rimane a Roma, per di più – ancora peggio – va in missione dentro il carcere. Però in questi anni ho scoperto che non son partito io per il mondo, ma il mondo mi è venuto incontro. In primo luogo, per le nazionalità che si incontrano all’interno di un carcere minorile – la maggior parte dei ragazzi detenuti sono extracomunitari, abbiamo tanti ragazzi del Magreb, tanti ragazzi della dell’Europa dell’est, tanti ragazzi rom, tanti ragazzi sudamericani. Quindi il mondo io l’ho incontrato lì dentro, ma non solo da un punto di vista geografico. Mi sono accorto che il viaggio più bello che si può compiere è quello nel cuore di una di una persona, soprattutto di un ragazzo. Ho scoperto in questi anni che la missione non si misura in termini di distanze, in orizzontale, ma di quanto veramente si va in profondità, per cui per essere missionari non occorre partire per l’altra parte del mondo, si può essere missionari a Torino, nei vostri quartieri, in università.
La seconda premessa è questa: normalmente uno entra in carcere per due motivi, o perché ti arrestano e dentro il carcere ti portano, oppure perché qualcuno ti propone di andare e quindi per obbedienza cominci a frequentare quel posto. Così è avvenuto a me: quando ero in seminario, negli anni della teologia, uno dei superiori mi propose di cominciare questa caritativa una volta a settimana. Io non sapevo minimamente a cosa sarei andato incontro, però in questi anni ho imparato che, quando qualcuno che ti vuole bene ti fa una proposta, se gli dici di sì anche senza capire niente, se obbedisci, ci guadagni sempre. E quindi per obbedienza io mi sono trovato lì. E dopo 13 anni devo dire che il carcere è diventato per me un luogo speciale – qualcuno mi faceva la battuta, come c’è il mal d’Africa a te è venuto il mal di carcere!! – a un certo punto si instaura una relazione profonda con quel posto lì, con i ragazzi e le ragazze che vivono lì.
Per darvi un attimo il contesto, in Italia abbiamo 17 carceri minorili con un totale attualmente di circa 580 ragazzi e ragazze detenuti, con una netta maggioranza di ragazzi. Per il carcere femminile abbiamo due punti in Italia, uno è a Roma e l’altro è Pontremoli a Massa Carrara in Toscana. Sono ragazzi e ragazze dai 14 anni ai 25 anni, perché all’interno del carcere minorile noi abbiamo anche giovani adulti con reato commesso da minorenne, che possano rimanere a scontare la loro pena nel carcere minorile fino al compimento dei loro 25 anni. Si finisce in carcere per reati gravi oppure perché si è recidivi. A Roma ieri erano 68 in tutto, ragazzi e ragazze, la maggior parte minori stranieri non accompagnati. Rispetto ad altre situazioni del Nord Italia, ad esempio Torino, non abbiamo ragazzi di seconda generazione, la stragrande maggioranza dei nostri sono arrivati con i barconi, partiti da soli a 11-12 anni, per poi ritrovarsi nei centri di accoglienza, scappare, trovarsi alla stazione Termini, dove hanno vissuto di espedienti – spaccio, rapine, furti e prostituzione – quindi arrivano al carcere. Anche il livello di istruzione è molto basso, la comunicazione non è facile, l’italiano lo sanno pochissimo. Poi abbiamo ragazzi italiani, spesso delle periferie di Roma, alcuni già appartenenti a organizzazioni criminali ben strutturate. Ma mi sono accorto che il reato è abbastanza democratico, attraversa un po’ tutte le fasce, non riguarda solo chi vive per strada.
Perché può essere interessante parlare del carcere minorile e che cosa ha a che fare con la nostra vita? Quando sono entrato all’inizio ho detto “ma io cosa c’entro con questi qua? mica ho spacciato, rapinato e ucciso qualcuno” Sicuramente la mia storia è diversa, lontana dalla loro, che punti di incontro ci possono essere?
Mi sono accorto che il carcere è una lente d’ingrandimento sulla vita di tutti i giorni. È interessante entrare un po’ nelle dinamiche tra i ragazzi all’interno del carcere, perché sono dinamiche che, portate alle estreme conseguenze, allargano e fanno capire tante dinamiche che noi ci troviamo a vivere tutti i giorni. In questi anni mi sono convinto che i ragazzi che abbiamo all’interno del carcere non sono mostri. Sono ragazzi come voi, normalissimi, ma che hanno incontrato il carcere prima di finirci fisicamente. Lo avevano già incontrato prima. Nelle situazioni a casa, in famiglia, nei contesti in cui hanno vissuto, avevano un carcere invisibile, che già li imprigionava. E io penso che, se guardiamo alla nostra vita, chi di noi non ha un carcere invisibile da cui vuole evadere? Certe situazioni in famiglia che ci fanno soffrire, relazioni amorose che ci fanno soffrire, scuola, università, compagni, ognuno può dare colore a questo carcere invisibile.
Ogni generalizzazione è sempre limitante, però ho trovato tre linee comuni che hanno sempre attraversato e un po’ caratterizzato le storie dei ragazzi.
La prima prigione invisibile, la più dura, è la solitudine. Arrivano ragazzi soli, che sono soli durante la permanenza e che usciranno ancora soli. Vi racconto di un ragazzo, uno dei primi che ho conosciuto, da cui ho imparato tanto. Era un romano, cresciuto solo con la nonna perché la mamma era morta quando era piccolo. Il papà aveva già una condanna di 14 anni a Rebibbia. La nonna l’ha tenuto a casa per quello che ha potuto fino ai 10 anni, dopodiché la strada lo ha “educato” e lui raccontava dei pochi momenti di incontro con suo padre, quando tornava a casa in permesso dal carcere: “andavo da mio padre, volevo parlare con lui. Avevo bisogno di parlare di qualche problema, e lui mi dava 200 € in mano e mi diceva, esci, non rompere, non è il momento”. Questo si è verificato una, due, tre, quattro volte; alla quinta volta ho cominciato a spaccarmi di droga con un amico, perché lei, la droga – diventata come una persona – era sempre lì, era sempre vicina, mi era sempre accanto, a lei potevo fare le mie domande e mi dava le sue risposte”. Con questo lui mi ha fatto capire a cosa io, come prete, ero chiamato. Che non ero chiamato a convertire nessuno, a risolvere nessuna situazione, a fare chissà quali discorsi. La prima cosa che io ero chiamato a vivere era stare accanto e accogliere quelle domande lì, cercare insieme, camminare insieme, accanto. Durante il periodo del COVID avevo portato un articoletto di giornale che parlava della paura della morte e di come stare davanti alla paura della morte E sempre lui – questo ragazzo che entrava e usciva, ma il 1 luglio era sempre in carcere, con lui abbiamo festeggiato 7 compleanni, dai 14 fino ai 21 anni – mi fermò quando eravamo nel gruppetto, e mi disse: “Sai, noi non abbiamo paura della morte. Noi la morte la sfidiamo, noleggiamo i macchinoni dopo serata, ci sballiamo, andiamo sul raccordo di Roma a 200-250 Km/h, quello ci dà l’adrenalina per vivere, non ci fa paura, a noi fa paura la vita, rimanere soli ancora una volta davanti alla vita”. Ecco la solitudine. Quando entri nel carcere, la tocchi la solitudine. Immaginate anche semplicemente che uno quando entra non ha il cellulare, quindi già tre quarti dei contatti, delle relazioni che noi abbiamo normalmente vengono tagliati. E’ un momento in cui sei “spolpato”, ti vengono tolte quelle cose che noi normalmente abbiamo nella vita di tutti i giorni, e quindi può essere anche il momento per dire “fermati un attimo, vediamo un attimo che cosa possiamo fare della tua vita”.
La seconda prigione invisibile è la povertà, non tanto la povertà materiale, che c’è – tutti questi minori stranieri non accompagnati arrivano allo sbaraglio – ma la povertà più grande è la povertà di stima, di fiducia in sé stessi. Madre Teresa diceva che il più povero dei poveri non è chi non ha da mangiare, da bere, ma è chi sa che la propria vita non è mai stata voluta, amata e stimata da nessuno. Al carcere arrivano ragazzi così, con questo sentimento dentro, che tante volte, soprattutto i maschi, nascondono con la strafottenza. Però alla fine sono solo maschere, c’è questo sentimento di sé, che la propria vita è sbagliata. C’è una canzone napoletana neomelodica con un verso che loro ripetono “perdonami mamma, perdona questo figlio sbagliato”
E poi la terza prigione che è un po’ una conseguenza delle altre due: una mancanza di speranza per il futuro. Ho visto che i ragazzi sono tutti molto appiattiti sul presente. C’è un’incapacità di pensare al domani, dobbiamo sopravvivere oggi, dobbiamo concentrarci sull’oggi, domani non si sa. Sono quindicenni/sedicenni che vengono dicendo – probabilmente anche per attirare l’attenzione, però quando uno ripete continuamente una cosa poi si convince che è vera – “per me non c’è più speranza”, “io sono finito qua dentro, per me non c’è più speranza”. A 15 anni non puoi dire che non c’è più speranza per te. Sei arrivato qui, possiamo provare, possiamo fare qualcosa di diverso, ma c’è questa grande disillusione verso un futuro, un domani che non si vede. Però oltre a questo, io ho visto in tutti i ragazzi un grande desiderio di relazioni autentiche, un grande desiderio di amicizia. Arrivano ragazzi molto sfiduciati, molto feriti da una fiducia tradita, soprattutto da parte degli adulti, però desiderosi di relazioni vere.
In questi anni mi sono chiesto tante volte come fare per aiutare in un processo di liberazione. Perché – è una cosa che ripeto tanto ai ragazzi – non basta uscire dal carcere per essere liberi. Se non scatta dentro una liberazione profonda, quando esci poi ritorni qui. “Ah, quando esco non farò più quella cosa. Non commetterò più reato”. Poi passa un mese e vedi che tornano. Mi colpisce ad esempio come anche nella Bibbia il popolo d’Israele, per imparare a essere libero, ha dovuto camminare per quarant’anni. C’è un processo di liberazione lento, ci vuole tempo per imparare a essere libero. In questi anni ho imparato, mi è stato insegnato un atteggiamento, una parola che, secondo me, è la chiave per tante situazioni. Quando ho cominciato ad andare in carcere ho avuto la fortuna di incontrare un grande uomo, Padre Gaetano, che è stato il cappellano prima di me, che ha vissuto 36 anni nel carcere con i ragazzi – oltre ad aver messo in piedi una casa-famiglia dove accogliere alcuni che uscivano dal carcere. All’inizio mi disse che in un posto così non contano tanto le belle parole, quello che conta e che costruisce sarà la presenza. E io in questi anni ho visto che quella parola lì è proprio quella più importante, imparare a essere, a esserci, cioè che il carcere non è tanto il luogo del fare – che poi se riesci a fare tanto meglio – ma innanzitutto è un luogo che ti costringe a essere una persona migliore, una persona diversa, una persona autentica e credibile.
E questo esserci, questa presenza vuol dire per me tre cose, la prima, dare spazio in un posto dove lo spazio non c’è. Cancelli, celle, porte blindate, muri. Dare spazio alla vita dell’altro innanzitutto dentro di me, imparare ad ascoltare, ma soprattutto a creare quella distinzione tra il ragazzo che ho davanti e il reato che ha compiuto. Se vuoi incontrare veramente l’altro bisogna mettere un po’ da parte quello che è stato fatto. Un ragazzo in una lettera ha scritto, “Io faccio il criminale, non sono criminale”. L’ha azzeccata, io non sono criminale, non mi identifico con la cosa che ho fatto, bene o male che sia. “Faccio il criminale” vuol dire che c’è ancora speranza, se hai fatto il male, tu puoi fare anche il bene.
La seconda cosa, dopo dare spazio, è dare tempo in un posto dove il tempo non c’’è. Quando entri in carcere sembra già di entrare nella dimensione dell’eterno, il tempo non esiste più. Quando i ragazzi chiamano gli agenti, una delle cose che senti ripetere tantissimo come risposta è “aspetta, aspetta”, “dopo”, quindi entri già nell’eterno. E allora, non avere la preoccupazione di misurare il tempo. A volte sembra di perdere tempo, dici “cosa ho fatto il pomeriggio? Eh, ho giocato a biliardino tutto il pomeriggio” Però a volte quei momenti lì sono i più importanti, che ti che hanno aperto in questi anni tante vie nuove.
E poi l’ultimo è dare fiducia, rischiare in una fiducia. A volte va bene, a volte va male, lo metti in conto, le cose non vanno sempre bene. Per me fu paradigmatico questo momento che ho vissuto due anni fa. Un pomeriggio di Natale due anni fa evasero dal carcere minorile di Milano sette ragazzi in contemporanea. Uno di questi, che poi venne ripreso il 29 dicembre – infatti era tutto dispiaciuto di non essere riuscito a fare il Capodanno fuori – l’avevano trasferito a Roma. E insieme a lui trasferirono a Roma anche la direttrice del carcere di Milano. Quindi i due si sono incontrati a Roma e lei quando l’ha visto chiaramente gliene ha dette di tutti i colori. Passano un po’ di mesi, arriviamo a luglio, la direttrice mi chiama: “cosa ne dici se gli facessimo fare un permesso?” E io: “è evaso dal carcere, figuriamoci se non scappa, in permesso senza guardie”. E lei: “però siccome ha tanta rabbia dentro, forse se noi gli diamo più fiducia, forse questa rabbia si scioglie un po’”. E andammo a Ostia, al mare, a luglio, un sabato pomeriggio, pieno, murato di gente. Da Milano ci aveva raggiunto la sua fidanzata, e con noi venne una suora che lavora in carcere, molto brava. Quindi eravamo questo quartetto strano, io, la suora, questo ragazzo e la fidanzata. È andato tutto bene e quando siamo rientrati lui disse “io non potevo tradire chi mi aveva dato fiducia”. Quel fatto lì fa capire che se vuoi tirar fuori qualcosa di buono devi rischiare una fiducia, con ragazzi che una fiducia non l’hanno mai avuta e che difficilmente gliela daresti così a pelle.
Tutto questo lo si impara, non si improvvisa. Ritorno sul rapporto che ho avuto con padre Gaetano, che per me è stato veramente un padre all’interno del carcere. Lui mi ha insegnato tantissimo. Ricordo due cose in particolare legate a lui che mi hanno fatto dire “vale la pena spendersi anche solo per uno di questi ragazzi qua, perché possa riprendere in mano la propria vita”. La prima è stata all’inizio, quando ho cominciato lui mi disse: “se sei venuto qua a cercare un posto dove riposare, hai sbagliato tutto, ma se sei venuto a cercare un luogo dove imparare che cosa sia la paternità, non ce n’è di migliori”. E io sto vedendo la promessa di questa frase, quanta verità c’era in quelle parole lì. E poi la seconda cosa: nell’ultima Messa che lui celebrò in carcere con i ragazzi, prima di andare in pensione, nel Vangelo Gesù racconta la parabola del re che prepara il banchetto di nozze per il figlio. Il re manda a chiamare gli invitati ufficiali alle nozze, ma ognuno accampa scuse. Allora dice, va bene, metti da parte tutti questi, vai a chiamare i più disgraziati, gli zoppi, ciechi, storpi, quelli che hanno avuto una vita difficile. Il Padre Gaetano con i ragazzi commentava: “ma perché Dio fa questa cosa? Mette da parte gli invitati ufficiali, va a chiamare tutti i più disgraziati perché sa che incontrarsi con Lui è la vera gioia. E quindi desidera che anche il più disgraziato, almeno una volta nella vita, possa sperimentare la gioia di incontrarsi con Lui e di fare festa”. Poi ha proseguito dicendo, “Vedete ragazzi? Per questo motivo c’è il prete in mezzo a voi, perché anche il più disgraziato di voi, almeno una volta nella vita, possa sperimentare la gioia di sentirsi voluto bene e amato da Dio così com’è”. E io, quando ho sentito quelle parole, mi son detto: per me vale la pena vivere il sacerdozio, vivere la vita, donare la vita perché anche uno solo di loro, almeno in quel piccolo frangente che è stato lì al carcere, possa sperimentare la gioia di essere voluto e guardato in un modo diverso.